Nella quadreria di Regina…

 

testo di Maria Egizia Fiaschetti

 

Il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea de “La Sapienza” presenta, dal 5 al 27 dicembre 2002, una personale di Regina Hübner, artista austriaca da diversi anni in Italia. La sala superiore del MLAC ha subito una radicale trasformazione spaziale, rispetto alla sua consueta disposizione: una galleria longitudinale, delimitata sul fondo da una parete curva e scandita da una serie di pilastri; a questi si contrappone la struttura serpentina e zigzagante che si snoda lungo il soffitto e imbeve l’ambiente di una bianca luce al neon. L’artista scardina le certezze percettive del fruitore, frutto di un’assidua frequentazione dello spazio espositivo, proponendo un assetto assolutamente inedito e, quasi, irriconoscibile. In realtà, ne sottolinea la versatilità alle molteplici ipotesi installative, nei confronti delle quali non funge da semplice contenitore. Piuttosto, si raccorda con le diverse modalità d’intervento, catturandole nella sua rete infinitamente ramificata, tessuta di una trama filiforme e microscopica. Per questo, l’allestimento realizzato da Regina Hübner sorprende senza apparire alieno e shockante. Una bassa penombra avvolge la sala, rivestendola di un abito leggero, granuloso e impalpabile; lo spazio, notevolmente ridotto tramite l’inserimento di pannelli trasversali, si condensa in una cellula estratta dal suo corpus originario. È come se un lembo fosse stato asportato dalla sua stessa epidermide, per farne materia di nuova creazione. Allora, la veste pubblica del museo è decantata nella texture morbida e ovattata del privato. Le pareti si animano di volti in bianco e nero, immersi in un flusso temporale sospeso e rallentato; ritratti di una quadreria domestica che, con la loro presenza testimoniale, sfuggono all’obsolescenza e intrecciano con gli astanti un muto colloquio. In una contemporaneità facile all’esternazione plateale e all’outing, espediente sempre più in voga per assurgere alla celebrità mediatica, l’opera di Regina Hübner apre un solco profondo. I ventuno personaggi immortalati dalla videocamera preservano la loro autenticità, proprio grazie all’anonimato. La loro identità, apparentemente indecifrabile, epurata da tutte le sovrastrutture, si offre nuda al nostro sguardo e ci esorta a scrutare oltre l’interfaccia fenomenica, alla ricerca di un codice più profondo. Da qui, la scelta di espropriare i diversi autori dei messaggi da essi pronunciati, a sottolineare l’ineluttabile fossilizzazione del pensiero nella fittizia convenzionalità del linguaggio. L’inazione, l’afasia, l’impenetrabilità non sono, tuttavia, un ostacolo alla comunicazione. Al contrario, laddove tutto è urlato, sbandierato, esibito con sfrontatezza, il loro silenzio discreto suona come un invito alla riflessione quieta e concentrata, all’interrogativo che non si sazia di facili verità, ma ne accetta l’instancabile ricerca. Le parole, i segni, le diverse formule espressive sono letteralmente scardinati, ridotti a pura tautologia. L’essere, come insegnava Parmenide, “è” e guai a tentare di tradurlo nell’arbitrarietà del medium linguistico! Allo stesso modo, quei taciti volti ci parlano, comunicano con noi, nonostante non esprimano un contenuto specifico. Le loro frasi, registrate su un supporto audio, sono riprodotte al contrario e, pertanto, contravvengono ai tradizionali canoni della significazione. La loro trascrizione è proiettata, invece, nello spazio: dapprima, lambisce inavvertitamente i nostri piedi e, mentre tentiamo invano di afferrarne il senso, scorre davanti a noi, inghiottita dalla parete. La parola, che non è più referente oggettivo e universale del reale, acquista una peculiare valenza simbolica e s’inscrive perfettamente nella dimensione ambientale dell’opera. Anonymous-Dedicated to Vally lancia un paradosso tanto inverosimile, quanto illuminante: che occorre restare anonimi, per essere autentici. Come recita uno dei messaggi, la cui paternità è volutamente celata, “…Negli interstizi dello spazio finito, tra la selva di cose e di doppi, si impone una dilatazione nell’infinito“. Qui, tutto si arena, non ultimo il logos che sempre c’indottrina e, allora, si può udire soltanto la voce dell’idiosincrasia.